Raccolta di poesie
Schena editore – anno 1983
PREFAZIONE A ME STESSO
Ho scritto molte presentazioni per libri di poesie. Di poeti giovani e meno giovani, di città e di paese, già noti o ansiosi di esserlo, innamorati della metrica e delle rime o fieri dissacratori di tutto questo. Ho partecipato a dibattiti e tavole rotonde sulla poesia. Ho recensito libri di amici e degli amici degli amici e ogni volta, con maggiore o più sofferta onestà intellettuale, ho cercato di trovare il filo, il legame, il nesso logico, il motivo ispiratore, se volete, del far poesia. Spesso ho avvertito fastidio ed imbarazzo. Ma tutto con grande disponibilità a capire.
Ora tocca a me parlare di me. E tradisco confusione di pensieri, frantumati concetti, soprattutto la sensazione profonda di un pudore, il mio pudore, violato. Sicché forse non mi resta che l’ultimo gesto di giustificazione, di legittimazione possibile di questo libro e cioè l’autocritica, le cose per quelle che sono, lo scavarsi dentro sino in fondo, il frugare impietoso tra i pensieri reconditi e segreti in modo che grande sia la possibilità di assoluzione se totale e completa sia stata la confessione.
Una premessa: avrei potuto far ricorso a molti dei letterati amici, alcuni di chiara lama, come si dice, e credo che nessuno si sarebbe tirato indietro. Il libro se ne sarebbe certamente avvantaggiato e la mia vanità sarebbe cresciuta. Ma non sarebbe stato un comportamento del tutto onesto nel senso che sicuramente di me e delle mie poesie avrebbero parlato bene, forse perfino al di là di ogni benevola previsione, ma sarei stato (a parte il rapporto di riconoscenza e di gratitudine) a chiedermi quanto di vero ci fosse nei giudizi espressi e quanto invece non era ad esempio dovuto a comuni frequentazioni, a complicità generazionali, a prospettive di lontani ma puntuali scambi reciproci di interessate cortesíe.
Non avrei mai saputo intera la verità.
E questo avrebbe in cuor mio, più che rispetto agli altri, offuscato il piacere, il valore della presentazione stessa.
Allora, tanto vale che sia io a scrivere di me.
Ma – dirà qualcuno – perché ti sei deciso a pubblicare le tue poesie se tali e tante sono le perplessità, gli interrogativi, i dubbi?
L’obiezione è fondata, Vostro Onore, e merita anch’essa una spiegazione.
Per tantissimo tempo sino a oggi, mi sono ostinatamente negato a pubblicare un libro di poesie. Sul mio tavolo, in redazione, ne giungono a diecine: stampati alla perfezione o frettolosamente messi insieme da ignari tipografi, illustrati dai disegni di artisti o francescanamente sobri. Moltissimi i libri inutili. Pochissimi, se non rari, quelli degni di circolare. Ed ogni volta mi trovavo a riflettere sul destino, sul viaggio di un mio ipotetico libro, nel gran mare procelloso della poesia anche brutta ed inutile. E dicevo di no a me stesso e alle insistenze affettuose e perentorie della mia tribù familiare.
Poi tra questo tenacissimo proponimento, cioè l’ostinazione a non pubblicare un libro per non essere confuso al peggio con tutti gli altri e il continuare certosino, insistito, perfino di nascosto a scrivere poesie, si è creata come una lacerazione approfonditasi con il tempo. Perché poi mi nascevano dentro sussulti di rivincita, desideri inconfessati di verifica, di giudizio. Cosi ho partecipato ad affollatissimi concorsi per poesie inedite. Mi sono misurato quasi per un luciferino senso di sfida con falangi, legioni, reggimenti di poeti di tutta Italia: massaie e letterati, barbieri e presidi in pensione, sessantottini in disarmo e katanghesi vestiti da Armani, fanciulle travagliate da pene d’amore e burocrati frustrati. Ed ogni volta attendevo con logica freddezza, con la lucidità della ragione più che con trepidante aspettativa, di vedere come andava a finire.
E finiva spesso in quello stupendo gioco al massacro che diviene tale se visto e vissuto con distacco. La pletora sterminata dei concorrenti, in genere non meno di un mezzo migliaio, con falcidia impietosa veniva ridotta diciamo ad una ventina di presenze. E spessissimo io c’ero. La decimazione da prima guerra mondiale proseguiva – da venti si passava a dieci – ma non mi toccava. Poi si giungeva a cinque. E più di una volta c’ero ancora. Infine la terna dei premiati. Ho conosciuto cosi poeti anziani e poeti giovani, in doppiopetto grigio e cravatta intonata e in jeans stinti e dalle chiome arrabbiate.
Dopo il rito della premiazione, dopo i discorsi, le coppe e le medaglie, ci si ritrovava con aria complice e da consorteria e ci si chiedeva dei libri.
– « Quest’anno sto al Viareggio, non mi sfugge ».
– «Io preferisco il Taormina, è più serio».
– «Non me ne parlare, meglio il Carducci».
Quando toccava a me non sapevo che dire. Avvertivo il disagio dei miei interlocutori, il loro disappunto perfino, ma non ci potevo far niente.
Ma come, non avevo pubblicato nemmeno un libriccino qualsiasi? Ma era proprio possibile?
Cercavo di farmi umile, ma la mia anomalia di poeta senza libro sortiva l’effetto opposto. Riuscivo cioè a sembrare insopportabile per la mia diversità che veniva considerata poi una specie di snobismo intellettuale, l’inconcepibile rifiuto ad usare i canali normali di espressione.
E la contraddittoria lacerazione in me cresceva. Ero un poeta dimezzato.
Irrequieto come un peccatore di Dostoewsky (non potevo continuare a compiere innumerevoli peccati veniali credendomi comunque assolvibile solo perché non commettevo quello che consideravo il pi ú grande dei peccati mortali e cioè la pubblicazione di un libro) eccomi ora con la mia raccolta stampata.
I pensieri sulla carta, ripetuti diecine, centinaia di volte nelle pagine uguali, mi sembrano meno miei. Rimane viva cioè la sensazione del pudore violato. Come se fossi stato messo nudo in mezzo ad una folla se non ostíle certamente indifferente e distratta.
Ma questo è infine il destino di ogni libro.
Perché le ragioni della storia?
Perché si possono ritrovare i motivi della mia storia, delle mie radici e quelli della storia della mia terra, della mia gente.
Una storia che non può non avere al centro l’uomo ed il suo destino di eternità per un cammino anch’esso di eternità. E nel cammino c’è la speranza del messaggio cristiano
. Le mie radici sono contadine. La mia infanzía e la mia adolescenza sono nutrite di estenuanti meriggi di sole, di lunghe controre e dei ritmi dei lavori in campagna.
Una infanzia di albe e di tramonti. Di feste paesane e di grandi mangiate. Tutto questo ed altro ancora rende saldo il mio mondo e lo lega alla terra, agli umori della terra.
– Buona annata quest’anno.
– Speriamo per l’anno venturo.
Ma tutto questo, se mi lega alla storia del passato, pone anche l’esigenza di tramandare qualcosa ai miei figli, nesso di immortalità come diceva Pascal.
Ad essi il senso di quello che è stato mio, del germogliare dentro di me, di come sono stato ed anche della maturazione avvenuta, perché per se stessi abbiano chiare le ragioni dell’essere.
Le ragioni della storia sono così le mie e le loro ragioni.
Un mio avo, durante la guerra dei piemontesi contro i briganti borbonicí, fu scelto a sorte perché andasse a sorprendere, di notte, un capo brigante che si era nascosto, solo, nelle campagne di Canosa. Era d’inverno e nevicava forte. Il mio avo, che apparteneva alla Guardia Nazionale, galoppò per ore. Anche lui solo con i suoi pensieri e la sua paura. Da una casupola di foglie intravide una fioca luce. Il brigante dormiva con la testa ciondoloni sul tavolo. Nonno Paolo, cosi si chiamava il mio antenato, sparò un colpo dì doppietta e fuggì.
La storia che mia madre mi raccontava spesso non aveva una fine. Così non ho mai saputo se quel capo brigante morì o se il colpo andò a vuoto.
Per molto tempo sono, stato dalla parte del brigante ignaro del suo destino. Poi ho capito anche le ragioni della galoppata invernale e dell’unico colpo sparato forse con precipitazione da nonno Paolo. Per ambedue le ragioni della storia. Ragioni individuali, frantumate dal trascurabile episodio, di nessun peso, ma anch’esse inserite nel grande cammino dell’uomo. Anche per questo e nato un libro.
Un ultimo residuo di pudore mi ha vietato di scrivere una dedica. La traccio ora: questo libro lo offro, pegno d’amore, a mia moglie e ai miei figli di cui sono sommamente orgoglioso.
Il rito è consumato. Sino in fondo ma con pensieri d’amore.
MICHELE CAMPIONE